sabato 29 giugno 2013

INCONTRI/TONY SANTAGATA


L’INTERVISTA A TONI SANTAGATA. È STATA PUBBLICATA SUL SETTIMANALE IL RESTO, EDITO A ALTAMURA
L’incontro tra Vito Grittani e Toni Santagata è stato casuale. Una volta erano in un locale, a Roma. Vito ha chiesto a un amico che conosceva il cantante pugliese di dirgli che c’era una persona a cui sarebbe piaciuto ricordare che la sua famiglia, quando emigrò in Germania negli anni Settanta, aveva un tuffo al cuore ogni volta che lui cantava le sue canzoni con quello strano dialetto. Un dialetto che non era pugliese. Era la lingua di tutte le Puglie messe assieme. Il foggiano s’avvicinò e salutò Vito. L’uno inorgoglito dalla conoscenza di un personaggio famoso, anche se ormai in là con gli anni; l’altro inorgoglito dal fatto di essere stato notato e chiamato per le presentazioni.
Toni conferma la versione di Vito: non sapevo assolutamente che fosse sulla sedia a rotelle. Perché qualcuno potrebbe pensare che l’abbia fatto solo perché ero stato invitato da un disabile. Assolutamente. Lo feci per curiosità. Oggi posso dire di aver conosciuto una persona straordinaria. Sono le conclusioni tratte da entrambi.
Ho conosciuto personalmente Tony al party dato dall’ambasciatore della Corea del Sud nella sua residenza di via Della Mendola, a Roma. Per molte ore, lo chansonnier di Santagata di Puglia, classe 1936, ha parlato della sua vita, di avventure e disavventure. L’intervista è stata pubblicata dal settimanale Il Resto, diretto da Nicola Mangialardi.

“Vedi questa casa? Ci abito da oltre trent’anni. Attico e superattico in via Cassia. Arrivammo insieme, io e Lucio Battisti. Praticamente nella stessa giornata ci rivolgemmo all’imprenditore Umberto Lenzini. All’epoca era presidente della Lazio. Lui disse: la darà a Tony Santagata. Lucio fu costretto a ripiegare su un altro appartamento, una palazzina a venti metri dalla mia, al terzo piano. Grazia Letizia Veronese abita ancora lì, è buona amica di mia moglie”.
Tony Santagata è un torrente in piena. Al party per la festa nazionale della Corea del Sud, in via Della Mendola, all’Olgiata, non lontano da casa sua, omaggia l’ambasciatore coreano di una delle sue ultime fatiche canore. Il diplomatico asiatico, sotto lo sguardo sornione di Vito Grittani, mostra di apprezzare. Nel prosieguo della lunga serata, l’intervista si trasforma in una conversazione e quindi in un torrentizio monologo. Soprattutto quando, insieme, passeggiamo nella zona che una volta pullulava di locali, dal Folkstudio al Bagaglino. Che più o meno mezzo secolo fa, lo vedevano tra i protagonisti della dolce vita romana.
Dietro il Pantheon, seduti al ristorantino ‘La Miscellanea’, serviti da un vispo ragazzo moldavo, racconta di quando, lui poco più che adolescente, Padre Pio rispose alla sua insistente domanda ‘Mio padre vuole che studi, ma io voglio cantare: cosa devo fare?’, il frate delle stimmate rispose: ‘Studia, uagliò, studia. Anche se lo so che cosa farai, finirai per andare a fare il cantante. Hai la coccia dei foggiani della montagna, tu. Ah, uagliò – aggiunse – però mi raccomanda: canta di Dio’. Quello di Francesco Forgione fu una sorta di vaticinio. Santagata di sarebbe ritrovato San Pio – stavolta non davanti, bensì dentro -, in un passaggio cruciale della sua vita: la grave malattia della moglie. “Mi affidai completamente a lui – racconta -: ebbi la fortuna di incontrare medici straordinari. Da allora, le mie preghiere sono state ancora più intense”.
Uno dei momenti più importanti della sua carriera artistica è la messa in scena della sua opera (“Lo vogliamo chiamare musical? Facciamo pure. Per me resta un’opera: certo scritta in modo diverso da quelle ottocentesche, quelle della grande tradizione italiana, ma pur sempre un’opera”) dedicata al santo di Pietrelcina. “Dovevamo eseguirla dinanzi ad un altro gigante della terra, Giovanni Paolo 2°. Furono momenti straordinari.
Santagata è molto legato alle sue origini. E non solo perché quello strano dialetto pugliese utilizzato in moltissime delle sue canzoni, ha contribuito alla sua fama: “Lasciamo stare i ‘Beri’ (chiaro riferimento a Lino Banfi, ndr) e i facili e un po’ ruffiani rifacimenti dei classici napoletani (Renzo Arbore, ndr). Io ho portato sulle platee un linguaggio che faceva riferimento alla Puglia intera. Anzi, alle Puglie”. Tony diventa prima professore di storia raccontando l’assedio di Accadia. Poi si fa psicologo dell’anima: “Qualche tempo fa, in macchina, sbagliai strada. Mi ritrovai sull’orlo della diga di Occhitto. Decisi di proseguire: fu come un viaggio nelle viscere della terra, della mia terra. Terra umile. Il paese dell’anima, della mia e della mia gente che ancora resisteva in quei posti poveri ma ricchi di fascino, da San Marco La Catola a Alberona, da Volturara a Motta Montecorvino”.
E la Puglia di oggi? Piace a Tony Santagata? È diventata un laboratorio politico eccezionale, con quel governatore comunista e pure gay. “Di politico non m’interesso. Sennò avrei accettato l’invito di Aldo Moro. Nel 1976 quell’uomo straordinario, quella persona eccezionalmente colta che parlava in toni pacati e educati, mi propose di candidarmi per la Democrazia Cristiana. Per tornare all’attualità, non mi pare che essere omosessuali sia uno scandalo. Anzi. Sapete bene che il mondo che ho frequentato e frequento ne è pieno. Spesso è addirittura la regola. Mi piace invece la grande dignità di Vendola. Per il resto, di destra o di sinistra, l’importante è che gli amministratori e i politici a qualsiasi livello siano onesti. Sennò che futuro potremo costruire per quei miei nipotini che stasera sono a casa a far compagnia alla nonna?”

DALLA GAZZETTA / IL PANE DI TRIGGIANO


L’inchiesta sull’avvio delle complesse procedure per ottenere la denominazione di origine protetta (DOP) del pane tipico di Triggiano è stata pubblicata dalla Gazzetta del Mezzogiorno di sabato 19 gennaio.

Triggiano – Più che della tavola, il pane è al centro del tavolo. Di discussione, di concertazione, tecnico o politico che sia. Del pane si è occupato il consiglio comunale e del pane s’è parlato nello studio di un notaio. La politica triggianese è al fianco del consorzio che deve tutelare, valorizzare e promuovere. Una strada comune. Una via maestra per arrivare alla grande distribuzione organizzata. Traguardo inevitabile se si vuole uscire dagli ambiti culturali e sagraioli e ottenere risultati come crescita della piccola imprenditoria artigianale e commerciale e sbocchi occupazionali.
Fa pensare positivo, per esempio, il fatto che i due panificatori che incontriamo siano figli di fornai. Una tradizione che continua, ma soprattutto persone che non ingrossano le fila dei cercatori di lavoro. Dice

Gianni Di Natale, 26 anni: <E’ un lavoro faticoso ma che mi appassiona da sempre. Nell’azienda di mio padre mi sono ritagliato uno spazio con una specializzazione>. Intanto Gianni si arma di pala e sforna un pezzo di pane da mezzo chilo, uno dei più ricercati. Spiega il procedimento piuttosto complesso fino alla rifinitura (il caratteristico taglio centrale) e all’imbuto elettronico che “spruzza” nel forno scorze di mandorle e involucri dei noccioli delle albicocche. Elementi imprescindibili per ottenere il “pane di Triggiano”. Come il forno a legna. Il pane dev’essere cotto su pietra. Conferma Francesco Ferrara, titolare di un’azienda che si occupa anche di ristorazione per comunità: <I buongustai sanno che il pane di Triggiano è il massimo del sapore – dice senza mezzi termini -. Ha origini antichissime e rappresenta appieno la tradizione, dall’impasto alla cottura che deve essere effettuata solo in forno a legna bruciando profumata scorza di mandorle>. Conferma Sandro Romano, gastronomo e prefetto per la Puglia dell’Accademia di gastronomia storica: <E’ uno dei pani in grado di supportare i nostri extravergine. È preparato con grano tenero, ha mollica bianca e compatta e crosta scura, spessa e croccante e trovo sia il massimo con pomodorino, origano e un filo di olio, meglio se novello. Perfetto anche l’abbinamento con i legumi, in particolare con il purè di fave e cicoriella selvatica e qualche fettina di cipolla d’Acquaviva. Fino ad arrivare alla Nutella…>.
Rino Di Natale ha sperimentato i “quartini” con il lievito madre: <Magari si sentirà molto il lievito, ma a mio parere il risultato è straordinario>.
La signora Bice Cataldo, pensionata, racconta: <Vado al forno tutte le mattine per il nostro pane. Se non lo trovo? No, non ne compro altri. Mica posso far mangiare a mio marito la michetta>. E un bracciante che lavora in un’azienda agricola di Noicattaro, ha una teoria tutta sua: <Il nostro pranzo è veloce, durante la pausa. Vuoi mettere un pezzo di pane con le cime di rapa stufate?>. Pierino Quassia ha dedicato una poesia al pane triggianese e, più in particolare, al “cacaruozzo”, il “culo del pezzo del pane”. Tolta la mollica, diventa un contenitore per ogni bendiddio.

A dicembre 2011 il Consorzio del prosciutto San Daniele scelse tre tipi di pane per ogni regione. Per la Puglia, oltre alla puccisa salentina e al pane di Orsara, c’era il pane di Triggiano. Che poi “eliminò” leccesi e foggiani. Un motivo d’orgoglio per l’assessore alle Politiche culturali Enzo Elia: <Fu la premessa migliore per affrontare le iniziative intraprese, a cominciare dalla sagra del pane e dell'olio, che nelle ultime edizioni ha fatto registrare il tutto esaurito. Al momento, i forni che possono rispettare alla lettera il disciplinare sono tre. <A Triggiano abbiamo comunque sei forni a legna - ricorda Mauro Mauro, assessore alle Attività produttive -. Ora stiamo facendo sul serio perché ci sono sicuramente altri panificatori da coinvolgere>. Tra gli sponsor dell'iniziativa c'è il barese Giovanni Di Serio, vicepresidente di Assopanificatori: <Il prodotto è ottimo, ora speriamo che anche attraverso azioni di marketing spinto si possa sfondare negli ipermercati>.
Pino Affatato produce pane di Triggiano da non sa più quante generazioni. Il suo pane si trova anche in alcuni supermercati: <Produciamo 120-150 pezzi al giorno, diciamo un’infornata completa>. Naturalmente, trovarne un pezzo la sera è praticamente impossibile. <Da fatto culturale e affettivo – conclude Pasquale Neglia, animatore del consorzio – il pane deve diventare uno dei volani dell’economia. La strada è lunga, ma dopo molti anni finalmente l’abbiamo imboccata>.

VIAGGI & MIRAGGI / MINORI

 Minori è una deliziosa cittadina in provincia di Salerno. Lasciata Salerno, dopo Vietri e Cetara, ecco Maiori. A cui segue, inevitabilmente, Minori. Oltre al mare, una delle attrazioni del borgo marinaro (fa meno di tremila abitanti) è una villa romana. Una delle tante costruite nella zona e utilizzate dai nostri progenitori più ricchi. La costruzione risale al primo secolo d.C. Venne rinvenuta nel 1932. Contiene preziosi reperti, mosaici e decorazioni tuttora ben conservati. L'antiquarium, il viridarium, il triclinio ninfeo, le sue decorazioni pittoriche ben rappresentano quella che fu la "villa d'otium" in cui trascorrere i periodi di riposo di nobili romani. Si mangia bene al ristorante La Grotta (ottima la frittura di mare). Il limoncello di Gambardella, da cui trovi anche buona pasta speciale trafilata al bronzo. Poca gente ai primi di giugno. E qualche lamentela per la scarsa affluenza dai titolari di un caffè nella centralissima piazza sul mare e dell'alberghetto dove alloggiamo. A due passi, verso l'interno c'è Ravello, con il fascino della cultura. A venti minuti di autobus c'è Amalfi. Ecco, la sosta a Minori può essere utilizzata quale campo base per visitare la Costiera, da Amalfi a Positano fino a Sorrento. Un consiglio, peraltro superfluo: lasciare l'auto per esempio a Minori, e viaggiare in pullman: sono efficienti e non ti fanno venire l'ulcera da traffico lungo una delle strade più affascinanti ma più impervie del mondo.

venerdì 28 giugno 2013

VIAGGI E MIRAGGI / PAESTUM

 Sono stato a Paestum l'estate scorsa. Una puntatina nel corso di una breve vacanza in Cilento, per l'esattezza a Ascea. Dalla cittadina sul mare in provincia di Salerno, a pochi chilometri da Palinuro, raggiungere il bacino archeologico in treno è molto facile.
Oggi, in macchina, nel corso della trasmissione radiofonica Baobab (RadioUno, nel pomeriggio - http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-cbafc1c8-a1e8-4a29-99ea-e8e0d951a689-radio1.html), ho ascoltato un servizio che prendeva spunti da due episodi: da un lato la mostra che il British Museum di Londra sta dedicando a Pompei e l'assemblea dei lavoratori del sito archeologico forse più importante del mondo che ha tenuto chiuso gli scavi per alcune ore, lasciando centinaia di turisti in attesa. Un po' quel che era accaduto pochi giorni fa a Roma, al Colosseo. Ospiti della giornalista che conduce Baobab c'erano Antonio Caprarica, corrispondente della Rai dalla capitale britannica, il sindacalista Giacinto Placido, e la soprintendente Teresa Elena Cinquantantaquattro. In pochi minuti sono stati espressi i punti di vista necessari per avere un quadro completo della problematica. Ci sono i diritti dei lavoratori (sacrosanti e sanciti dalla Costituzione) e ci sono i diritti dei visitatori. C'è la capacità londinese di organizzare un evento di rara bellezza e c'è una certa tendenza tutta italiana all'autolesionismo. Lasciare al sole centinaia di turisti dietro i cancelli chiusi del Colosseo, al di là dei diritti sindacali (ripeto: da rispettare e difendere), è puro masochismo. A Londra - ha sottolineato Caprarica - non accadrebbe mai. Westminster, Buckingham Palace o London Tower non resterebbero mai chiusi per simili motivi. Eppure siamo nella culla della democrazia.
C'è poi lo stato di conservazione dei bacini archeologici italiani. Dicevo di Paestum. (http://it.wikipedia.org/wiki/Paestum) (due immagini con il mio Blackberry). Poca gente. E un senso di abbandono, di incuria, a cominciare dalle sterpaglie e dai prati incolti che circondano i titanici edifici sacri. Davanti a un "totem" con le istruzioni per l'uso di uno mirabilanti templi praticamente illeggibile per l'azione del sole su un plexiglass, ho chiesto a una signora addetto al sito perché non venisse sostituito. Caro signore, quasi quasi non ci sono i soldi per lo stipendio. Si figuri se possono provvedere a nuovi supporti, mi ha detto con la chiara inflessione partenopea.

UN TUFFO OLTRE LA VITA


Vi siete mai chiesti cosa ci sia dopo? Dove andremo? Cosa diventeremo? Sono uno scientista. Quindi, fondamentalmente, sono convinto che ci sia solo il disfacimento, il nulla, insomma. Però, sono un socio-cattolico, come dice Piergiorgio Odifreddi. E dunque la tentazione di credere che un qualcosa ci sia oltre lo Stige, oltre l'Acheronte. E se Caronte non fosse solo un'invenzione della fantasia? E se la vita dopo la morte non sia solo una favola dell'oppio dei popoli, della religione? E se... E se fosse vero quel che diceva il padre di un amico notaio ("Tanto che ti costa, crederci conviene") fosse la sacrosanta verità? Stamattina, in bagno, ho letto un articolo di Enzo Bianchi su Agorà (le pagine culturali) di Avvenire di domenica scorsa. Straordinario scrittore il priore di Bose. Ecco un assaggio (per chi lo desideri, c'è il link per leggere l'intero pezzo del sacerdote dalla barba candida: http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa201306/130623bianchi.pdf): «Troppi cristiani credono nella reincarnazione, tra l'altro senza sapere che nell'induismo e nel buddhismo essa significa una condanna, perché la salvezza si attua attraverso una lunga disciplina che fa uscire dal ciclo dei ritorni sulla terra» «La resurrezione di Cristo non significa solo che la sua parola non finisce, bensì che la sua intera persona, inchiodata in croce, è stata rialzata da Dio in un'esistenza nuova Questa Pasqua rivela e annuncia lo stesso evento che attende l'umanità di tutte le genti e tutti i tempi».

L'anno scorso sono stato a Paestum. Al museo archeologico c'è un capolavoro assoluto: la tomba del tuffatore. Non sapevo dell'esistenza di questo reperto (http://it.wikipedia.org/wiki/Tomba_del_tuffatore). Me ne sono innamorato immediatamente, tanto da comprare un piccolo poster che ho incorniciato e appeso in ufficio e una maglietta. L'ho fotografato con il mio Blackberry.

Il tuffatore è colui che sta passando a miglior vita. Il tuffo è il momento del transito. Denso di fascino ma istantaneo, macabro e intrigante. Un viaggio senza ritorno, eppure ineluttabile: c'è quasi un senso di volontà in quello che avviene. Un suicida? O la consapevolezza viene da un destino che non si può cambiare? Leggiamola come vogliamo. Resta la meravigliosa grandezza di un'inconsueta (e forse inconsapevole) opera d'arte.

mercoledì 26 giugno 2013

CONTRAPPUNTI / LASCIAMO CHE MUOIANO UNA VOLTA SOLA

Un pomeriggio di tanti anni fa - avevo ancora la bicicletta azzurra - fui attratto da un manifesto funebre sulla plancia centrale, nella piazza degli uomini, a pochi passi dal chiosco dell'edicola.  E' venuto a mancare Pasquale Prigigallo, ne danno il triste annuncio, il figlio Vito... Non andai oltre. Mi venne un tuffo al cuore. E non tanto - sarò sincero, posso permettermelo a distanza di tanto tempo - per il dolore per la scomparsa di mio padre, quanto per il fatto che non ne sapessi nulla. Riflettei - ne sono pressoché certo - ad alta voce e in dialetto: eh, madonna, è morto mio padre e non m'hanno detto manco nulla. Fu un attimo, ovviamente: riconcentrandomi sulla lettura, non c'era la foto del defunto, mi accorsi che c'era di mezzo anche una figlia femmina. Non poteva essere quel Pasquale. Mi rincuorai, restando dispiaciuto per la morte, comunque improvvisa e inaspettata, di una persona che conoscevo appena, ma che sapevo essere un brav'uomo.
Il mio rapporto con i morti, con il cimitero, con i manifesti funebri è sempre stato alquanto particolare. Al cimitero, per esempio, non ci vado praticamente mai. La nemesi ha voluto che mi occupassi per molti anni di servizi cimiteriali, almeno per quel che riguarda le concessioni dei loculi. Che imbarazzo ogni volta che veniva un cittadino per acquisire un loculo. Ricordo quando inaugurammo un nuovo complesso di loculi con un bambino, morto a seguito di gravi patologie cardiache. Aveva pochi anni, forse pochi mesi. Di lì a poco, a seguito di un incidente, sarebbe morto anche il giovane padre.
L'ho preso alla larga, molto alla larga, mi capita spesso.
Mi capita, per esempio, leggendo un manifesto, di sorprendermi della dipartita di una persona: ma come, non era già morto qualche giorno fa? Tutto dipende da un vezzo (a mio parere un cattivo vezzo), di annunciare il trigesimo e anche il primo anniversario della scomparsa di questo o di quello. Le affissioni si sono moltiplicate. Gli angoli riservati ai manifesti funebri, di annuncio e di cordoglio, non bastano più: muri, plance, cabinette del gas, del telefono e della luce, tutto va bene. Sì, ma per cortesia, non facciamo morire due-tre volte i nostri cari. Certo, sono i più ricercati in paese: aspetta, aspetta, vediamo chi è morto, dicono le massaie stracariche di buste della spesa. Basta con i trigesimi, gli anniversari, i ringraziamenti postumi. Lasciamoli in pace i nostri morti. Che vivano per sempre nei nostri cuori e non sui muri sbrecciati del paese.

martedì 25 giugno 2013

DALLA GAZZETTA / STORIA DI NOA CHE VENIVA DAL NULLA

A fine giugno dello scorso anno un ragazzo maliano, Noa, muore annegato per un banale incidente in mare. Lui che aveva traversato i mari di sabbia e i mari delle boat-people, incontra la morte in quel mare che era stato la grande pista della speranza. Viveva in una delle comunità di accoglienza del territorio, la Esedra di Triggiano.
L'insegna-motto sulla facciata della sede di Esedra, a Triggiano
L’ARTICOLO E’ STATO PUBBLICATO DALLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO IL 29 GIUGNO 2012
Il sorriso di Noa era solare. Come se il sole accecante che cuoce la terra e le facce della gente del Mali si fosse concentrato sul suo volto, avesse donato ai suoi denti un candore smagliante. “Lui era speciale”, dice Stefania Palermo, trattenendo a stento le lacrime. La referente delle comunità gestite dalla cooperativa Esedra prosegue: “Avrebbe compiuto diciott’anni a gennaio. Aveva tutta una vita davanti a sé. Aveva una gran voglia di studiare e poi voleva lavorare. Alla scuola media Di Zonno frequentava i corsi di alfabetizzazione per stranieri. Rispetto agli altri era parecchio avanti nell'apprendimento dell’italiano”. Quand’era arrivato, nell’estate 2011, giusto un anno fa, parlava il bambarà – dialetto della terra di provenienza -, un po’ di arabo e un po’ di francese.
Noa Traorè era venuto dal mare. Quel mare che aveva visto per la prima volta (il ragazzo viveva in un villaggio al centro del Paese africano, nei pressi del Niger, il fiume dove aveva imparato a nuotare, non distante da Timbouctou) sulla spiaggia della Libia: gli scafisti l’avevano spinto sul barcone. Destinazione Paradiso (per loro). Più semplicemente, Lampedusa. Quel mare che in pochi mesi era diventato la sua vita tra l’isola al largo della Sicilia e Palese. Quel mare che l’altroieri l’ha inghiottito mentre giocava con un coetaneo, a Savelletri. Spiega Vito Del Medico, responsabile gestionale di Esedra: “I ragazzi escono spesso per delle escursioni o piccole gite. Fanno parte del percorso. Sono seguiti dagli accompagnatori. È una tragedia inspiegabile. Davvero una fatalità”.
Ieri mattina il pullman di 54 posti non bastava per portare i ragazzi di questa e altre comunità sul luogo del dramma. Tutti volevano vedere, tutti volevano partecipare. Tutti volevano chiedere a quel mare così tranquillo perché aveva voluto la vita del loro compagno che l’altro mare, quello cattivo tra il Nordafrica e la Sicilia, aveva spinto verso una nuova speranza.
Ottenuto il nulla-osta dall’Ambiasciata del Mali, la salma – spiegano alla Esedra – sarà restituita alla famiglia. “Grazie a un mediatore linguistico – aggiunge Stefania – ho parlato con il padre”. Fatalista, è sembrato, il genitore. Forse semplicemente incapace di esprimere il dolore sordo di quella ferita che arrivava da così lontano.
La Esedra gestisce tre residenze per immigrati, in convenzione con il comune di Bari: una a Triggiano, due lungo la provinciale che da Noicattaro porta a Torre a Mare. Noa viveva, con altri otto adolescenti, nel palazzotto in pieno centro a Triggiano, quello che sulla facciata ha un rosone enorme, un grande sole con la scritta ‘lo siamo per passione’. Più che uno slogan, un modo di essere. In questo momento la cooperativa ha in carico poco più di trenta ragazzi. Ma i suoi servizi sono molteplici, tanto che dà lavoro a oltre centocinquanta persone, tra operatori, amministrativi e collaboratori.
Dopo i diciott’anni Noa cos’avrebbe fatto? “Quello che fanno un po’ tutti, dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno – dice Vito Del Medico -: lavorare. Ci sono borse lavoro, progetti per sviluppare le capacità autonome, che sono la prosecuzione dei progetti educativi individualizzati che avviamo nei nostri centri con équipe multidisciplinari e mediatori linguistici e psicologici”.

VIAGGI E MIRAGGIO - TROGIR

Trogir, il lungomare
Trogir, novembre 2012 - Giovanni Orsini era un prete veneziano che nel 12° secolo si trasferì in Dalmazia. Qui trovò un luogo di capre (tragos in greco), l'antica Tragurium. Trogir festeggia il suo Svet Ivan (in realtà il vescovo è solo beato, chissà se lo faranno mai santo) il 14 novembre. Una festa semplice, senza orpelli, sobria: una messa, una processione attorno al borgo antico, con la banda in testa, il busto argenteo del santo portato a braccia da un addetto che cambia ogni anno, non più di cinquecento persone che, uscite dalla cattedrale, seguono il corteo, con semplicità. L'italiano, il meridionale, resta stupefatto: nessuna luminaria, nessuna bancarella, nessun paramento dorato.
Da sinistra, Grittani, l'interprete e i sindaci di Lucera e Trogir
Orsini mori nel 1111. Una delle leggende legate al vescovo Ivan narrano delle reliquie del veneziano che miracolosamente “tornarono indietro”da Venezia a Trogir, dopo un furto molto simile a quello delle ossa di San Nicola. Solo che i “pescatori-corsari” baresi si dimostrarono molto più abili dei veneziani che nel 1174 provarono a portarle via dalla chiesa di Svet Lovre. Oggi, la cattedrale dedicata a San Lorenzo, dopo tante contaminazioni stilistiche e architettoniche, è il principale edificio sacro di Trogir. Orsini era un diplomatico: molto più semplicemente con la diplomazia che con i miracoli, salvò la città dalla distruzione programmata dai Magiari.
Della diplomazia sembra nutrirsi oggi la politica “estera” di Trogir e in particolare del suo sindaco, Damir Rilje. Che ogni anno raduna, in occasione delle celebrazioni per il patrono, le città gemelle. E le “twin towns” ogni anno rispondono. Stavolta ce n’erano una diecina. Oltre alle italiane Lucera e Porto Sant’Elpidio, delegazioni turche, macedoni, ceche, bavaresi. Insomma, mezza Europa.
Dunque, da quest’anno al meeting che si tiene nella piazza d’armi del castello del Camerlengo, proprio sul mare della baia di Trogir, c’era anche Lucera. Che dal 23 luglio, con la firma del protocollo a palazzo Mozzagrugno, è gemellata con Trogir. Pasquale Dotoli, quattro mesi dopo, ha restituito la visita. "Amicizia santa" l'ha definita Rilje, abbracciando Dotoli al momento della consegna dei doni, nel pomeriggio di un mercoledì.
Tra i momenti di maggiore suggestione della tre giorni croata, la visita al Parco degli Amici. Dove è stato piantato un alberello per ciascuna delle twin towns. Una sorta di giro dell'Europa in riva al mare: una lapide ai piedi del giovane albero riporta il nome della comunità gemellata. Dalle grandi capitali dell'Est europeo - Budapest, Praga e Varsavia - ai tanti centri più piccoli come la stessa cittadina imperiale in Terra Dauna e Gorazde, Jaroslav e Kranyska Gora, Montesilvano e Vaterstetten, Yalova Turska e Krasnik, Kotor e Sibenik, Surlat La Caneda, Slupka e Ancona, Budva e Vukovar, Tione e Tivat. E altre ancora.
Una delle bancarelle che vendono fiori al mercato giornaliero
Artefice del gemellaggio tra Lucera e Trogir, Vito Grittani. Singolare figura, il capursese, che si muove con naturalezza nel mondo della diplomazia. Capace di concretizzare in pochi mesi un’operazione che altrimenti sarebbe durata mesi e avrebbe fatto scorrere fiumi di inchiostro e riempito faldoni di scartoffie. A maggio visita Lucera l'ambasciatore della Croazia. Poche settimane dopo Rilje e Dotoli appongono la loro firma in calce al protocollo del gemellaggio.
Trogir, il castello del Camerlengo
Dalla genesi del gemellaggio alla restituzione della visita il passo è breve. La delegazione dauna è composta dal sindaco, dagli assessori Andrea Bernardi, Mario Follieri e Giacomo Capobianco e dal consigliere comunale Michele Barisciani.
"Esperienza straordinaria - non fatica ad ammettere Dotoli -. Come l'accoglienza. Senza fronzoli, essenziale, ma sentita, col cuore. Nulla è stato lasciato al caso. Quel che colpisce è la capacità di intessere rapporti con altre istituzioni in ogni parte d'Europa. Sedere fianco a fianco a turchi, cechi, montenegrini, tedeschi e naturalmente croati ti offre la possibilità di misurarti con nuove dimensioni, anche con problematiche nuove e magari anche più gravi”.
La politica dei gemellaggi vuol dire marketing territoriale. Vuol dire credenziali per quell'Europa comunitaria di cui la Croazia sta per diventare parte integrante. Vuol dire una rete di contatti che può favorire il turismo, il commercio. E, non ultimi, gli scambi culturali. La conoscenza. La curiosità. Un po’ come, molti secoli fa, provò a fare, riuscendoci, Giovanni Orsini. Il vescovo diplomatico che divenne beato e fu chiamato santo.

VIAGGI E MIRAGGI - REGGIO CALABRIA

Come dicevo, il lungomare di Reggio Calabria, intitolato all'ex sindaco Falcomatà, è uno dei più belli d'Italia. Una passeggiata è ricreante. In basso, sulla marina, alcuni locali sembrano (dico sembrano perché non ci sono andato: ho preferito, per affezione, il "My ad 1": sembra un acronimo inglese, invece va letto più semplicemente "mai a diuno", giammai a digiuno, in via Vespucci, poco lontano dal centro) di prim'ordine.
Li ho fotografati. Magari, in una prossima puntatina a finisterre d'Italia, un primo di pesce o più semplicemente una pizza...
Sullo sfondo c'è la Sicilia, c'è Messina. La città in cui, pochi giorni fa, è stato eletto sindaco l'esponente della lista civica "Non al ponte". Il sogno berlusconiano di passare alla storia per un'opera la cui grandezza avrebbe travalicato i confini. Continueremo a viaggiare tra Scilla e Cariddi a bordo dei Caronte. D'altronde, a cosa sarebbe servito un ponte da non so quanti miliardi se prima di imboccarlo, per arrivare a Reggio, mettiamo venendo da Bari, devi attraversare l'abitato di Nova Siri, sfiorare la rocca di Roseto Capo Spulico su una stradina a due corsie, dietro un autoarticolato, farti gli ultimi 30 chilometri prima della città su un'autostrada da trent'anni in costruzione (e negli ultimi tempi stanno lavorando di buon a lena). A che sarebbe servito il ponte, insomma?
Mi rendo conto che siamo passati dalla pizza alla politica. Quindi, è meglio chiuderla qui.

VIAGGI E MIRAGGI - RUVO DI PUGLIA

Ho fotografato la concattedrale di Ruvo di Puglia qualche settimana fa. Ero a Ruvo per partecipare a una manifestazione enograstronomica, ospite di Luca Cappelluti, titolare e che del Convivio, uno dei migliori posti della cittadina rubastina quanto al buon cibo e al buon vino.
La chiesa dedicata a Santa Maria Assunta è uno dei massimi esempi del romanico pugliese. La sensazione di stupore è quella che provi davanti a San Nicola a Bari, o agli edifici sacri di Trani e di Conversano. La nostra terra è ricchissima di tracce del romanico con tanto di influenze gotiche. Il buio della notte è una quinta perfetta per il candore della facciata. Il portale ma soprattutto il rosone sono straordinari. Il cerchio magico in alto è uno degli elementi centrali. Pare un cesello. Anzi, un ricamo, un'elaborazione dell'uncinetto, un capolavoro nato dalle mani delle nostre nonne.

lunedì 24 giugno 2013

IOSEFA, STELLA E SILVIO

Iosefa, Stella e Silvio.
Iosefa se n'è andata. Mi sta simpatica. E non solo perché s'è dimessa. Non solo perché ha vinto tante medaglie olimpiche. Non solo per le mitiche telecronache di Galeazzi. Ma perché ha il nome di mia nonna, Giuseppina (anche se qualche buontempone, al'epoca - era il 1909, pensate un po' - la chiamò Peppinella). Iosefa se n'è andata per una questione di "destinazione d'uso di un locale". Lei è tedesca. E' fatta così. E Enrico Letta è stato intransigente. Una intransigenza - lo immagino - con il cuore gonfio di dolore.  E di rabbia.Una intransigenza da leader senza se e senza ma.
Iosefa se ne va.
Come se n'è andata Stella. Questione di centimetri. Centimetri in più in una decina di balconi. Questione di interferenze possibili quanto improbabili. Stella se n'è andata. Questione di stile. In fondo, fare l'assessore in un piccolo paese di provincia, pressapoco una espressione geografica, non può essere così importante. Certo non più importante della dignità. Stella se n'è andata. Ha lasciato per non farsi massacrare. Lei non ha la vocazione di Giovanna d'Arco, non ha voluto salire sul rogo mediatico. Ha salutato tutti ed è tornata alla sua vita.
Silvio non se n'è andato. Silvio non se ne andrà mai. Anche perché sostenuto da una gran parte di quello strano mondo-a-parte che è l'Italia. Un film di Fellini (che non poteva non essere italiano). Silvio è stato condannato, non ricordo più neanche quante volte (a proposito, è stato condannato anche Raffaele: e neanche lui, salentino di Maglie, se n'è andato; e anche lui accumula migliaia di voti dei miei corregionali). Ma, che volete, in questo strano gioco dell'oca che è il nostro Paese, i dadi sono truccati solo quando esce l'uno più uno. E poi, lui, Silvio, nella casella del si torna indietro non ci andrà mai. Lui guarda avanti. E' l'invito di Angelino, d'altronde: vai avanti, Silvio. Meno male che ci sei tu.
E meno male che ci sono gli italiani che lo votano a milioni. Sennò i giudici rossi (o, peggio ancora, i giudici femmina, puah) ci avrebbero arrestati tutti. In prigione, in prigione, tutti quanti in prigione, cantava Edoardo. Tutti tranne lui, Silvio.

I POETI / DUE

Ho scoperto per caso Wislawa Szymborska (credo si legga Visuava Simborsca). La poetessa polacca ha scritto versi di straordinaria intensità. Ti ringrazio, cuore mio: / mi sono svegliata di nuovo / e benché sia domenica, / giorno di riposo, / sotto le costole / continua il solito viavai prefestivo (da Al mio cuore, di domenica).
Nel discorso di ringraziamento per aver ricevuto il premio Nobel nel 1996, disse fra l'altro: "Il mondo, qualsiasi cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso, amareggiati dalla sua indifferenza (...) questo mondo è stupefacente".
Un'altra lirica la poetessa polacca la dedica nientemeno che a Hitler: E chi è questo pupo in vetrina? / Ma è Adolfino, il figlio dei signori Hitler! / Diventerà forse un dottore in  legge / o un tenore dell'Opera di Vienna? / Di chi è questa manina, di chi, e gli occhietti, il nasino? / Di chi il pancino pieno di latte, ancora non si sa: / d'un tipografo, d'un mercante, d'un prete? / Dove andranno queste buffe gambette, dove? / Al giuardinetto, a scuola, in ufficio, alle nozze, / magari con la figlia del borgomastro? (...).

I POETI / UNO

Lo chiamerò Lillo. Alle due e un quarto, era praticamente la contr'ora, faceva il caldo che fa a fine giugno. Mi sono sentito chiamare: "ragionij". L'ho sentito, ma ho fatto finta di niente. Anche perché - non me ne voglia chi ha tale qualifica - odio sentirmi appellare "geometra" o "ragioniere". Poi sento un nitido "giornalì". Beh, mi ha fregato, penso. Ciancia la solita tiritera: te la regalo, vedi di pubblicarla, sennò fanne quello che vuoi. Me la lancia dal balcone. Gli dico di piegarla più volte, altrimenti vola.
E' un foglio di protocollo a righe. Sopra c'è scritta una poesia.
Lillo è un tipo strano. Anzi, strambo. Ma innocuo. Anzi, innocente. Candido. Da anni vive sul confine. Quella linea rossa che demarca il territorio della gente normale (che poi saremmo noi, tutti o quasi tutti) dal regno della anomalia. Prima faceva il cameriere a Londra. Poi il cervello ha galoppato in groppa ad un cavallo ed ha fatto un viaggio sulla luna.
La vena poetica attinge alla fonte del padre, poeta e calzolaio. Un ciabattino che scrive poesie. Sarebbe piaciuto a De Andrè. Faber, poeta degli ultimi, avrebbe scritto una canzone dedicata a uno degli ultimi.
La POESIA di Lillo s'intitola La Risurrezione di Gesù al cielo: Gesù risorge / con tutti gli angeli del Paradiso / Con il suo infinito sorriso / Conferma il paradiso / a tutta l'umanità. / E la sua presenza è infinita felicità.
Poi, si firma con il suo lunghissimo nome, appellandosi "poeta cristiano".
Lirica di struggente candore. Pressoché inconsistente. Le sue note stanno sul pentagramma della banalità. Ma - ne sono convinto - piacerebbero, specie quel Gesù che sorride, a Francesco. Sì, proprio a lui, al papa semplice, a padre Bergoglio.

domenica 23 giugno 2013

QUEL POMERIGGIO AL DELLA VITTORIA

Non so se la data è proprio quella. Ma mi piace pensare di sì. Era il 12 dicembre 1965. Avevo meno di sei  anni. Piangevo praticamente ogni giorno: non volevo andare dalla signora Barruffi, quella sorta di asilo privato in via Trento. La Barruffi (ho sempre salutato - buon giorno, signora -, anche tantissimi anni dopo, fino alla  morte, quella distinta lady così poco paesana, così borghese, con quel tuppo di capelli grigi compattati da un intrico di ferretti) mi ricordava che passavo le ore intere a guardare l'orologio, fissando il lento ma inesorabile movimento delle lancette, con un unico movimento impercettibile del naso, per far salire gli occhiali che ero appena stato costretto a mettere. Ma questa è un'altra storia. La vigilia di Santa Lucia, dunque, era una domenica. E mio padre mi portò allo stadio. Che emozione. Il Bari era in Serie C, una delle tante trasferte all'inferno dei galletti.
C'erano calciatori che, di lì a poco, per me sarebbero diventati un piccolo mito, da Galletti a Cicogna. Rivedendo oggi quei nomi, mi rendo conto che molti di quei calciatori li ho intervistati: da Angelo Carrano a Emanuele Qudarello a Pasquale Loseto. Il tecnico era Filippo Calabrese, carbonarese bonario e tagliente, pronto di lingua, ironico e intelligente. Mi raccontò che una volta, quando giocava, arrivò in treno nella città dove avrebbe giocato. Era centravanti piccolo ma dal gran fiuto. Il presidente, che andò ad accoglierlo con tanto di comitato d'onore, quando lo vide scendere dal vagone, con una malcelata delusione gli chiese: tutto qui? No presidente, rispose strascicando, il resto è nella valigia. Segnò trentadue gol.
Al Della Vittoria, sempre con mio padre, ci sarei andato per anni. Mi sarei esaltato per i gol di Mujesan, per le geometrie di Fara. Al Della Vittoria sarei tornato molti anni dopo, quando il capo dello Sport della Gazzetta mi affidò il Bisceglie, in C2 (vi giocava Raffaele Rubino), che, squalificato il Ventura, disputò un intero campionato allo stadio di viale di Maratona. E poi avrei scritto le nuove gesta del rinato Liberty, prima con Ninì Flora e Gigi Frisini, poi con Nicola Canonico. Lo stadio dei miei sogni pallonari di ragazzino era diventato l'Arena delle mie cronache per la Gazzetta.
Ricordo i piccioni. Ce n'erano centinaia. Il guano lo potevi misurare a tonnellate. Volteggiavano abili, come padroni di casa disturbati dalla prodezze pedatorie, nidificando nel ventre dello stadio. Vincenzo "Pagotù" Stolfa mi regalava ogni volta un borghetti. E ogni volta era un tuffo nel mare dolce della nostalgia. Aspettavo due settimane, ma poi il premio era straordinario: la ottocentocinquenta, il parcheggio, il cappellino per il sole, l'attesa, la pubblicità di "baimorris" e "orologi antoni". E l'uscita in presa alta di Spalazzi, il cross di Fara, lo stacco di testa e l'incornata vincente di Luce Mujesan. Formidabili quegli anni.

VIAGGI E MIRAGGI - L'ETNA, UN RICORDO, IL BIANCO, IL NERO E UN BELL'ARTICOLO


Sottopongo all'attenzione dei miei venticinque lettori, un articolo scritto da Francesco Merlo sul suo giornale, La Repubblica. E' uscito ieri, sabato 22 giugno (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/06/22/lunesco-promuove-letna-il-vulcano-in-bianco.html?ref=search). E parla del riconoscimento, da parte dell'Unesco, dell'Etna quale "meraviglia" del pianeta. La prima cosa che mi ha incuriosito - starei per dire ovviamente, è il bianco e il nero, perno
concettuale dello scritto del giornalista siciliano. E poi il ricordo di una delle trasferte calcistiche più belle. Ero al seguito della Rappresentativa dei giovani dilettanti. Il Torneo delle Regioni quell'anno, per la prima volta, fu biennale: qualificazioni in Sicilia, finali in Lombardia, l'anno successivo. Una assurdità. Che la Puglia pagò a caro prezzo. Perché la squadra di quell'anno era formidabile. Giusto per fare un nome c'era anche Ciccio Caputo che, prima di approdare al Noicattaro (e di lì al Bari), aveva militato nel Toritto. Purtroppo, l'anno successivo, sul Garda, quella leva non c'era più.
Salimmo un paio di volte, a Zafferana prima e a Nicolosi poi, alle falde dell'Etna dal quartier generale della comitiva pugliese di Acireale. Lo facemmo in taxi. Con un taxista folle, che guidava lungo quei tornanti e settanta-ottanta all'ora. Sai che strizza. Provavamo a indurlo a una maggiore prudenza ma lui, con una macchina vecchia e mezzo scassata, non ci dava retta. Gli chiedeva come si viveva sotto il vulcano. In attesa, ci disse.

VIAGGI & MIRAGGI - REGGIO, IL LUNGOMARE E LA RIVOLUZIONE DEL 70



la lapide sul lungomare di reggio che ricorda il senatore franco, scomparso a 61 anni, nel 1991
Il lungomare di Reggio Calabria è tra i più belli d'Italia. E' intitolato a Italo Falcomatà, sindaco fino a dodici anni fa. E' strutturato su tre livelli: c'è corso Vittorio Emanuele III, con alcuni negozi e molti bar; c'è la passeggiata, elegante, costeggiata da una infinita teoria di palme; e c'è la spiaggia. Sotto la passeggiata ci passa la ferrovia. Praticamente al centro del Falcomatà, a pochi passi dalla rotonda sul mare, l'amministrazione comunale reggina, nel 2005, fece installare una lapide/monumento a ricordo di Ciccio Franco. Il giornalista e sindacalista, poi senatore per l'Msi, si mise a capo dei moti di Reggio del 1970. La storia potete approfondirla anche solo su Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Ciccio_Franco). E' interessante conoscerla, soprattutto nel contesto di quel passaggio epocale che furono gli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. E tuttavia, occorre leggere la rivolta di Reggio senza pregiudizi, soprattutto di natura ideologica. Sennò, è meglio non provarci neppure. E continuare a camminare ripa ripa ai muri.
p.s. proprio non mi riesce di pubblicare come si deve la foto scattata ieri sera.

sabato 22 giugno 2013

VIAGGI E MIRAGGI - SCILLA (REGGIO CALABRIA)

Trovi Scilla e cerchi Cariddi. Inevitabilmente. Inutilmente. La costa frastagliata, vista dal borgo a nord di Reggio, ti confonde: dove finisce la Calabria e con essa lo Stivale? Dov'è Messina e con essa la Sicilia? Spiaggia di acciottolato, caldo, cortesia al lido Antares. Prezzi popolari. A patto di non prendere consumazioni.
Qualche turista arriva all'hotel Karatiis. Il ristorante U Bais, proprio sulla riviera, a due passi dal mare, ha una decina di tavoli occupati. Il paesino sembra lindo. E' dominato dal castello che sorge su un promontorio che ricorda Cefalù.
Il mare è splendido, cristallino, subito profondo, ma ricco di meduse. Al largo passano un cargo stracarico di container che ti fa pensare che un po' di commercio l'Italia ce l'ha ancora; una nave da crociera che subito prende il largo diretta magari a Djerba; un 18 metri a due alberi, nero matt, splendido, spinto da un motore potente, con un canotto al traino.

giovedì 20 giugno 2013

Il cinema che non c'è (più)

Qualche giorno fa uno dei corrispondenti della Gazzetta, Mimmo Savino, mi ha trasmesso, non so ancora bene perché, un messaggio di posta elettronica il cui testo raccontava che il Cinema Cosmo di Grumo Appula, aveva annunciato la chiusura per mercoledì 19 giugno. E così è stato. Dopo soli tre anni di attività, il locale ha chiuso. Il proprietario, l'altamurano Donato Cosmo, aveva deciso di concentrare tutti i suoi sforzi sul rinato Cinema Vittoria di Cassano Murge.
Ha ancora un senso un cinema in paese? Dalle nostre parti, il Gloria e il Lombardi di Triggiano non esistono più da tempo. Stesso destino per l'Ariston di Valenzano. Anni prima un imprenditore edile di Capurso sostituì il cinema di Noicattaro con un palazzo. Per non dire di Casamassima, dove quanto meno la presenza dello "Space" nel parco commerciale supplisce a tale mancanza.
E Capurso? C'era una volta l'Enal. Che in piazza della Libertà sfoggia tutta la sua impudicizia. La presenza della costruzione stile impero (giusto per ricordarci che è stata costruita nel corso del Ventennio) rende brutta una delle zone centrali e strategiche del paese. L'ex Enal, infatti, è situato a pochi passi dalla basilica di Santa Maria del Pozzo. E' uno dei grandi rimpianti della comunità. Dopo l'acquisto dell'immobile da parte del Comune dalla Regione che ne era proprietaria - operazione risalente a più o meno cinque anni fa - non si trovano i soldi per trasformarlo. Già, ma per farne cosa? Avevo proposto un concorso di idee, magari tra giovani architetti neolaureati. Nulla, per ora. Abbiamo tentato di "coprire" l'edificio con palizzate sponsorizzate. Ci abbiamo messo le bancarelle di frutta e verdura. Resta il dilemma: che fare? Un cinema? Un teatro? Un polifunzionale? E gestito da chi? Con quali soldi? Non sarebbe meglio demolirlo? Oppure consentire una sopraelevazione, affinché l'eventuale gestore, con un accordo di programma, ne possa fare un politeama a piano terra e una palestra (è solo un'idea) a primo piano?

domenica 16 giugno 2013

Il senatore e il sindaco - Piccola storia di un misterioso sopruso di sessant'anni fa

Sergio Tatoli faceva il salumiere. Sergio Tatoli fa il salumiere. Il primo, classe 1906, emigrò dalla natia Bisceglie. Dopo un'esperienza nel Varesotto, si ritrovò, chissà come, a Capurso. Classe 1906, sposò, giovanissima, Giuseppina Cariello. Ben presto divenne Seriuccio. Prima vendette sapone. Attorno, si diceva e si dice, con una accezione dialettale. Insomma, venditore ambulante. Poi aprì una salumeria. Il secondo (nella foto qui sotto), figlio di Antonio (Ninuccio, scomparso nell'83), gestisce ancora oggi, pur tra mille difficoltà, una storica
salumeria (bottega, in dialetto) in piazza Gramsci, l'Antica Salumeria Tatoli. Sergio ha ritrovato un manoscritto che riporto perché indicativo di un certo malcostume che, a distanza di tanti anni, tende a ripetersi.
Il 17 luglio 1950, il senatore Giacinto Genco (a destra), scrive di proprio pugno una lettera al sindaco di Capurso, l'avvocato Pasquale Laricchia. "Caro Sindaco", scrive il parlamentare (altamurano, scomparso a 96 anni, nel 1997, quattro legislature, compresa la prima dell'Italia repubblicana, fu anche sottosegretario in un governo Leone, nel 1968), la prego di scusarmi se la disturbo. Latore del presente è il sig. Tattoli (le due t indicano una versione del cognome, tipicamente nordbarese) Sergio, mio amico, che ha chiesto invano la licenza di commercio ambulante. Siccome gli si fa dell'ostruzionismo, prego lei di intervenire personalmente ad intervenire questo sopruso- Gratissimo se vorrà darmi qualche notizia, la saluto
cordialmente-. Giacinto Genco. Piazza Roma 55 Bari".
Chi fosse l'autore del sopruso è difficile a dirsi. E forse interessa poco.
Quel ch'è interessante è offrire uno spaccato del mondo che era. Del mondo che è ancora.
P.s.Sergio Tatoli ha lavorato per molti anni, praticamente, fino alla sua morte, nel 1976, in una salumeria in piazza Marconi. Per molti anni è stato un punto di riferimento del piccolo commercio locale. Sergio Tatoli era mio nonno. Il padre di mia madre.

venerdì 14 giugno 2013

Cucinare (e mangiare) senza il nichel - AL Majorana di Bari il libro di Tiziana Colombo

Secondo alcune interpretazioni, Nichel deriva dal modo svedese di individuare una persona da poco, un folletto, un ragazzo irrequieto. Quel nome era “Nicolaus”. E di Nichel s’è parlato nella terra di Nicola. Al Majorana di Bari s’è parlato infatti di intolleranze alimentari. E in particolare di quella che pare essere una delle più insidiose, quella al nichel, appunto. Il nichel è contenuto in un gran numero di alimenti. A tale intolleranza Tiziana Colombo ha dedicato un libro, “Nichel. L’intolleranza? La cuciniamo!” (Silvana Editrice, €20,00). Dell’opera prima della blogger lombarda si è parlato nell’auditorium del polivalente del San Paolo. Coinvolti i ragazzi dell’alberghiero che hanno potuto apprendere alcuni segreti dell’arte di arrangiarsi tra i fornelli quando si hanno a disposizione ben pochi ingredienti.
Al seminario sono intervenuti, oltre all’autrice e al vicepreside Lorenzo Griglia, che ha portato i saluti della dirigente, Paola Petruzzelli, Sandro Romano dell’Accademia di gastronomia storica, Andrea Ricciato che al Majorana insegna Scienze degli alimenti, e Alessio Tosatto, biologo nutrizionista. Non poteva mancare il cooking-show: da un latoMAurizio De Pasquale, chef pasticciere che ha preparato una mousse di mele, dall’altra Alessandra Barbone che ha preparato un classico della cucina pugliese, le orecchiette. Si tratta di due delle centoundici ricette contenute nell’opera prima della 53enne Colombo: <Salute e gusto, anche nel caso di intolleranza al nichel, possono anzi debbono andare di pari passo. E vi assicuro, il risultato è molto apprezzabile>.

INCONTRI / SERGIO RUBINI

C’era un ragazzino in un paese della Daunia. La guerra era finita da poco. La fame no. Per uno strano caso venne invitato a pranzo in casa di un notabile del paese. Per alcuni giorni la sua vita cambiò. Il testo di Matteo Salvatore, uno dei grandi cantori del Sud, viene reso in modo straordinario da Sergio Rubini. Dopo il fiume di note e di parole generato dagli Spread – il gruppo di bancari trasformatisi in attori-musicisti-cantanti per lo spettacolo “My fair bank -, l’impatto con Rubini è ammaliante. Il racconto e la voce narrante conducono in un’altra dimensione I bancari musicisti-attori-cantanti, quasi dei “saltimbanca”. Il palco è la loro nuvola, la professionalità è altissima, non solo un’alternativa al lavoro, un altro modo di guardare alla vita. Senza le ossessioni del budget, dei conti, dei soldi, dei mercati, delle stock option e dei bond. Musica e parole anche per prendere in giro e prendersi in giro. Il vento dell’ironia soffia leggero.
La brezza della serata al sontuoso Auditorium della Scuola Allievi della Guardia di Finanza al San Paolo ha anche il nobile alito della beneficenza. L’incasso infatti è destinato ad un progetto promosso dal Reparto Oncologia dell’ospedale Di Venere, a Carbonara.
E infatti, per Rubini “My fair bank”, quello di venerdì 31 maggio, “è” l’evento: <Perché c’è un obiettivo nobile – dice l’attore e regista grumese -. Loro fanno un altro lavoro e ogni tanto fanno convergere, tutti insieme, la loro passione per una forma d’arte molto particolare, che comporta stare sul palcoscenico, offrire e offrirsi al pubblico dal vivo>.
Sergio Rubini è venuto apposta a Bari. Sarebbe ripartito l’indomani mattina. Una nobile causa vale la faticaccia.
Rubini, il film a cui è più affezionato? Scommetto La stazione.
<Sono affezionato a tutti i miei film. La stazione è il mio primo film. Però sono affezionato anche all’ultimo>.
 E La terra? Lì era cattivo, viscido, infido. Proprio brutto.
<In effetti era un ruolo particolarmente sgradevole. Ma il cinema è il bene e il male mescolato e frullato>.
Fellini?
<Un grandissimo artista amatoriale. Amatoriale proprio come i grandi amici che si sono offerti questa stasera>.
È diventato ambasciatore dell’olio extravergine di Puglia.
<È un progetto che non so a che punto sia. Ma è un grande onore. E’ un po’ come essere ambasciatore della pizza a Napoli>.
La pugliesità è fondamentale nella sua vita personale e di artista.
<Uno che fa il mio mestiere non può non attingere alla propria storia personale, alle proprie origini>.
La terra, un po’ per tornare al film citato prima, esprime al massimo proprio la pugliesità, le radici. A proposito. Grumo Appula?
<Grumo una volta era un paese tranquillo. Lo era quando io sono andato via>. Adesso è un paese che a volte è un po’ più violento. Non fa piacere scoprire che un po’ tutto il Sud, la provincia rischia di diventare periferia della grande città, che sia Napoli o Bari o Reggio Calabria. Con tutto quello che comporta, soprattutto in negativo. Comunque, resto molto affezionato al mio paese. Lì ho la famiglia, gli amici>.
Per diventare grandi bisogna andare a Hollywood come Muccino?
<Nooo. Per diventare grandi bisogna restare piccoli. Saper restare piccoli>.
Lo stato di salute del cinema italiano secondo Sergio Rubini?
<È in perenne crisi. Tuttavia diceva Holderlin che dove c’è crisi c’è salvezza. Se c’è crisi, vuol dire che alla base c’è garanzia che qualcosa che si muove, che vuole crescere. E quindi la situazione in quelche modo ci deve rassicurare. Nessuna iundusitra può restare in situazione di stallo, sennò è la fine. È un mondo che deve muoversi. La crisi è in qualche modo testimonianza che c’è perenne movimento>.
La Puglia Film Commission. Una mano al cinema pugliese. E alla Puglia.
<Assolutamente sì. È stata una grande intuizione quando Nichi(Vendola, ndr) ha pensato di farla diventare veramente e pienamente operativa. Vengono tantissime compagnie a girare qui. In fondo, è una maniera, come dire, per divulgare questa terra bellissima. I nostri scenari possono diventare un business. Perché, non dimentichiamo che la cultura è business. Ce ne rendiamo conto tutti. Solo Tremonti non l’aveva capito>.

Ci sono momenti in cui tra il bianco e il nero prevale il grigio. Un'ombra, una macchia indefinibile, oleosa, quasi maleodorante. In questi momenti la riflessione deve prevalere. La contemplazione. Il guardarsi dentro senza perdere di vista ciò che sta al di fuori.
Spesso invece accade che da una parte vi sia il bianco, dall'altra il nero. Non c'è una vera ragione. Accade che si finisca nella zona d'ombra, invischiati, risucchiati, spinti verso il basso da una sorta di palude che cela (e poi neppure tanto) sabbie mobili. Insidiose, subdole.
Da un lato il banco, dall'altro il nero. E invece il mondo, quello che sta dentro di noi e quello che sta al di fuori (che sia da noi stessi conosciuto o meno), è una lunga teoria di macchie grige. Di tutte le tonalità del grigio. Un non-colore, una anticromia. Ma è così. Inevitabile. Ineluttabile.
I fatti, le persone, le cose. Noi, gli altri, le nostre case, le nostre cose. e le case e le cose degli altri. Il nostro mondo e il gli altri mondi. Il conosciuto e l'inconosciuto.
Allorché il grigio invade (e pervade) il bianco e il nero, le cose si mettono male. I confini non sono più netti, nitidi, individuabili. Diventano linee contorte, sinuose. Linee grige. Altro che cinquanta. le sfumature del grigio sono mille, milioni, milioni di milioni.
Allora guardiamo le stelle. E cerchiamo una ragione in loro. Trapuntano il manto nero del cielo e illuminano il cammino. Verso la zona bianca o - persino - verso la zona nera. Purché il grigio scompaia. Cerchiamo i colori: negli occhi dei bambini, nei capelli di una ragazza, nelle rughe di un vecchio, nei ricordi di una mamma, nelle parole di un narratore, nel suono delle campane, nell'erba piegata dal vento, nel vento, nella pioggia e nel sole. Nelle opere e nei giorni degli uomini.